Prendi un foglio e scrivi.

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Mi sento solo.

Regalo parole.

Mi pesa il respiro.

PAURA.

Mi assale l’insicurezza, a tratti.

Ho voglia, o forse bisogno di lacrimare.

Però mi piace ottobre, che è un settembre spostato.

Mi piace questa luce.

Tramonto.

Le sere stanche.

Voglia di equilibrio.

Un sacco, ma un sacco di nuvole. Alcune un pò scure.

Obbiettivi lontani. Raggiungibili. Ma lontani. E allora mi tremano le gambe.

Non lo so. Non so molte cose.

E’ la strada giusta? E se dovesse?

Sono io. Dovrei essere io, si.

Mi perdo, come sempre. E aspetto di ritrovarmi. Tanto poi mi ritrovo.

Sospesi, futuro, maglioni, e tempo libero.

Maniche lunghe.

Ricordi. Nomi. Fotografie.

Perdifiato.

Continuo. Comunque.

Anni fa facevo un gioco. Era il mio modo di gridare stando zitto, di imparare la calma, e di fare tante altre cose. L’avevo chiamato ” Prendi un foglio e scrivi”. Consisteva nel prendere un foglio, appunto, e scrivere in sequenza le cose che mi venivano in mente all’istante, che principalmente mi facevano stare male, che mi avrebbero liberato. L’importante era che come denominatore comune avessero il momento, e il caso. In sintesi dovevo dirmi le cose come stavano.
Avevo quattordici anni, abitavo in paese, avevo un Block notes che ancora conservo. Le parole erano incastrate tra loro, alcune storte, alcune ordinate, altre più marcate, sottolineate, incise con la rabbia.

E alla fine, nella parte bassa, a destra, c’era sempre scritto questo: continuo. comunque.

Oggi, è ancora il 2003. E adesso sono un pò più libero.

Pettegolezzi a colazione.

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Stamattina il mio caffè ti stava pensando. L’ho sentito parlare con le presine, spettegolavano di me e te. Dicevano che sarebbe stato carino se fossi stata qui, di come sarebbe stato se io mi fossi messo a scrivere un pò, la mattina presto, e tu saresti apparsa in salone alla metà esatta di un paragrafo importante, con una delle mie camicie addosso, gli occhi stropicciati e un mezzo buongiorno in bocca.
Poi però il mio cinismo gli ha spento il fornello da sotto i piedi, che cominciavano a parlare un pò troppo. Dovrebbero imparare a farsi un pò gli affari loro quelle presine insolenti, e quel caffè che non si fa mai gli affari suoi.

Anche se una cosa giusta la stavano dicendo: le colazioni sole restano lì, quelle in due invece, ti portano sempre da qualche parte.

Intanto..

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E’ tanto che non ci abbracciamo. Dovresti almeno stringermi le mani ogni tanto.
Te lo ricordi quando non riuscivamo a fare passi avanti per perdonarci il mucchio di disastri che abbiamo fatto? Io si, me lo tengo sempre a mente. E mi piace come ci ridiamo ora, mi piace questa leggerezza. Mi piacciono la birra, e le sere di luglio.
E non mi importa la bellezza, anche se per fortuna sei bella lo stesso. Non mi importano i problemi se si possono superare, e se non si può, non mi importano lo stesso, ché una delle poche cose di cui sono convinto su questo pianeta è che si possa sentire molto altro, in mille modi diversi.

Mi importa esserci, nient’altro.
Stare qui seduto. E parlare, guardarti mentre ridi.

Dimenticare no, speranze e ambiguità nemmeno.
Però andare avanti.

Che c’è bisogno.

Piano,
ma bisogna andare, intanto..

Mare mosso

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Ti ho visto mille volte, nelle luci di un cielo che stava lasciando la città. Ti ho visto una mattina che avevi gli occhi stropicciati, sperare che quel momento potesse fermarsi. Ti ho rincorso lungo questi anni scivolando spesso e facendomi male, ma alla fine ero sempre lì, anche dolorante restavo lì.
Ti ho sentito nel mio stomaco stretto, nei miei pianti in camera al buio, nelle risposte che non ho ricevuto, in quelle che ho ricevuto. Ti ho pensato mille volte, ogni giorno, per averti vicino. A volte ti ho odiato, per tutta questa solitudine. Ho raccontato al mondo di quando ridevi, dei tuoi capelli sciolti e delle tue maniche troppo lunghe. Ho parlato di quanto ero felice a pensarti felice. Ho inventato di me e te sul terrazzo di casa mia seduti sul bordo, con i piedi a penzoloni, un pò di tramonto e Roma che faceva il resto. Ho immaginato mille volte un giorno dove io e te riusciamo a toccarci le mani, e lasciamo andare un pò tutto.

Volevo sapessi che c’è un mare un pò mosso oggi, però stranamente non mi fa paura nuotare con questo sole, ché probabilmente quando il mare è agitato è perché ha bisogno di qualcuno che lo abbracci, e che quindi entrarci, in mare, magari può aiutarlo a calmarsi.

Faccio passi diretti aldilà delle mie paure, che se te le raccontassi.
Muovo piano ogni cosa, per riuscire a raggiungerti.
E c’è da fare.
Però volevo che sapessi che sono determinato, deciso, che andrò fino in fondo in questa cosa.

Perché ti ho visto mentre ridevi, e ho pensato che forse sei tu davvero, l’unico posto dove riuscirei a salvarci.

il Mare, i Pancakes, e le cose.

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Non potreste capirla tutta questa solitudine, nemmeno se la spiegassi.
E allora non la spiego.

Dico solo che mi sentivo così, soltanto quando era inverno, e io aspettavo la primavera, e quando era primavera, e io aspettavo il mare.

Vorrei un sacco di vorrei.
Ma vorrei è condizionale, e io sono contro i condizionali, alcune volte.

Vorrei te. Forse. E basterebbe tutto.
E avrei meno diffidenza verso quelli che dicono per sempre.
Ridurrei le dosi di cinismo.
Imparerei a essere felice.

Ma io sono contro i condizionali, alcune volte.

Mangio focacce col prosciutto, e mi basta.
Poi ordino Pancakes, che ho ancora fame e un impellente bisogno di serotonina, forse.

E non potreste capirla tutta questa solitudine, nemmeno se la spiegassi.
E allora non la spiego.

Che oggi c’è anche il sole, e io imperterrito aspetto ancora il mare.
E mi sembra una beffa incredibile, questa.

Guarda un pò più avanti di quel naso.
Io sono esattamente lì.

Che qui, da queste parti, non si sa mai come va a finire.

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C’è una salita. E un cielo che non ha voglia di svegliarsi, stamattina.
Suona, Samuel Lindon. Io ascolto; con gli occhi chiusi e la mia postura su una sedia da giardino.

Mi mancava questo tempo senza rincorse,
mi mancavano le parole che non volevo più dirti,
e questa bilancia che mi sposta lo stomaco.

Mi mancavano le parole che ti dirò un giorno,
per spiegare tutto questo vuoto,
e questa attesa.

Cosa siamo adesso?
Siamo due possibilità, credo.

Quella che hanno due punti – di una dimensione fattibile – disegnati sullo stesso foglio e distanti qualche palmo,
di diventare – piano – di una dimensione un pò più grande.

Quindi, fai così: assicurati che scriva; e porta una penna, o un pennarello, una matita, o quello che ti pare. Che potrebbe servire.

O magari no. Ma portala lo stesso.

ché lo sai già come funziona no?

Qui,
da queste parti,

non si sa mai come va a finire.

Paura e Masochismo nella mia testa

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Sono seduto nel posto di mezzo, al centro di una sala vuota, dove non posso fare altro che aspettare. Hanno chiuso le porte, e spento le luci, e mi hanno lasciato qui, senza troppe spiegazioni.

“Poi forse ti veniamo a riprendere” mi hanno detto.
Io non ho fatto un fiato e mi sono seduto.

Ho pensato volessero farmi una sorpresa, ho cominciato a immaginare lo scatto della porta che si apriva, l’eco che avrebbe riportato in quella stanza cosi grande. Ho pensato a chi o cosa (speravo un chi) sarebbe stata la mia sorpresa, mentre invece il tempo passava e non arrivava nessuno. Ho stilato una piccola lista delle persone che mi sarebbe piaciuto veder entrare, una primeggiava su tutte, altre addirittura erano impossibili.
Il tempo passava ancora, gli occhi cominciavano a fare fatica.
Ho cominciato a valutare l’eventualità che mi avessero lasciato lì e basta, che fosse una specie di abbandono, ma sono rimasto comunque al mio posto, ché l’idea della sorpresa non l’avevo dimenticata per niente, e non avrei voluto in nessun modo rovinarla, nel caso.

Stavo lì, tra mille cose che mi assalivano la testa, poi mi sono guardato, come faccio ogni tanto, e mi sono accorto che stavo per morire di speranza.
Ho guardato bene. Avevano fatto di me un aspirante al suicidio, mentre in realtà quella era un esecuzione bella e buona: mettere un uomo nelle condizioni di sperare, e non ricevere; Aspettare qualcosa che si avvicini a una sentenza che non arriva mai.

Mi è cominciato a salire un pò di prurito, ero agitato, mi guardavo intorno. Ho immaginato anche che ci fosse qualcuno che mi stesse osservando, che in quel buio qualcuno si stesse godendo lo spettacolo della speranza prima, dell’attesa poi e infine del terrore.
Ma non sono uno che molla facilmente il colpo, quindi ho chiuso gli occhi, ho fatto un respiro profondo, ho chiuso le spalle poggiando le mani sui braccioli della sedia e mi sono alzato in piedi, sono uscito dalla lunga fila di sedie accanto alla mia e ho raggiunto la porta a tastoni, ho toccato la maniglia sospirando di nuovo, pregando. Era aperta, non mi sembrava vero: dieci secondi prima ero il protagonista di un incubo e ora invece entrava un pò di luce dalla fessura, uno spicchio.

Il vero incubo – però – è arrivato dopo, quando sono uscito.

Ero fuori, e nessuno mi aveva fermato per uscire. Non mi aspettava nessuno.
Ho guardato la strada di fronte. Qualsiasi cosa sembrava ferma, inutile. Non ci credevo più. Non credevo più a niente. I rumori erano sordi, tutti.
Camminavo in mezzo alle persone, che per me erano diventate carta. La città, era carta.

Poi mi sono fermato in un angolo, mi sono stretto tra le braccia.
Ho contato su me stesso, mi sono detto molte cose, alcune me le ricordo ancora.
Ho ridotto ai minimi termini quell’interminabile disastro in cui mi ero trovato contro la mia volontà, e ho provato a fare qualcosa.
Ho slegato quell’abbraccio, e ho cercato di capire.
Ho cominciato a mettere me, prima delle mie paure.
Ho capito che era giusto camminare con lo sguardo alto, prima per me, e poi perché ero sicuro che le stesse persone che mi avevano messo li dentro a marcire, prima o poi le avrei incontrate, e mi avrebbero visto, e io non avrei nemmeno gridato vittoria. Gli avrei voluto addirittura bene, di nuovo.
Ho cominciato a cercare molto poco. Ho cominciato ad essere io l’oggetto della ricerca.
Ho cominciato a dare importanza, a scegliere.
Ho cominciato a decidere per cosa ne vale la pena.
Ho imparato a valutare, e non immaginare soltanto.

Ho incontrato degli occhi grandi, che fanno a botte con il mio ego, ogni tanto.
Non ho fatto promesse. Non ho voluto promesse. Ho lasciato al caso, e lascio al caso.
So quello che voglio ma non ho aspettative. Non aspetto più, non mi aspetto più.

– R(espiro). –

Però gli occhi grandi mi piacciono, e forse provo a guardarli. Forse solo a capirli. Mi piacerebbe anche del vino, se è per questo. Mi piacerebbe quello che il vino fa succedere, nel senso più largo.

E poi mi piaccio io, che ho ancora un pò di paura, ma che sò come dargli spago.
Mi piaccio io, che ho imparato piano a darmi tempo per guardare, che ho trovato la via di mezzo tra scegliere e l’essere scelto.

C’è un libro, che mi piace, in cui c’è scritto: “e lo sai, non lo so se ho più paura di innamorarmi ancora o di non innamorarmi più”

Bene.
Io invece ho scoperto che avere paura mi piace, e basta.

Due ossimori imbecilli

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Tu non lo sai quanto vorrei che ci fossi. Tu non sai un sacco di cose.
E potrebbe anche finire già tutto qui.

Solo che poi non avrei molto altro da fare, a parte togliere l’acqua per il thé dal fornello, quindi, mentre scalda scrivo.

Dicevo che non sai.
Non sai minimamente cosa significhi per me tutto questo perdersi, tutto questo dare per scontato, inibire le possibilità, e quanto vorrei spiegartelo; partirei ad elencare per punti se fossi uno bravo a mettere in ordine, ma in realtà qui regna la confusione che non ti immagini, una confusione con dei contorni che mi aiutano a non aver bisogno di uno psicologo però. Anche se non sò ancora per quanto.
E si, è un ossimoro. Io e te siamo un ossimoro; ma ce la siamo raccontata mille volte questa storia stupida dove ci rincorriamo come i bambini, e credo abbia un pò stufato, quindi magari basta, che poi ora non si può nemmeno più correre se contiamo sulle mie costole.

Quindi dicevo, non lo sai cosa significa perdersi a capire chi viaggia a braccetto con la paura di saltare dall’altra parte, impegnarsi a farlo senza cedere lo sguardo, senza sentirsi il nulla, non lo sai cosa significa mettere in atto una congiura verso se stessi, impedirsi, mordersi le dita pur di non peggiorare le cose, soffocarsi i sentimenti; non sai cosa voglia dire affondare in un lago riempito di sensi di colpa e però sbracciare per non morirci.
Non sai cosa significa ogni mezz’ora desiderare che diventi possibile poter tornare tanto indietro da non vedere più questa macchia nera su me e te che sorridiamo poco, diventare nerissima mentre va via la fiducia e ancora più nera mentre provo a non farmi inghiottire.
Non hai idea di quanto vorrei che cadesse questo muro, o almeno tirarmi su con le dita e guardare appena aldilà di tutto, di tutti questi pensieri dati per scontato.
Non lo sai.

Non sai anche che ho perso la capacità delle parole, ed è per questo che non dovresti avere paura di parlarmi. Se ti consola saperlo, da queste parti è rimasta solo la tecnica di una malinconia che scarta i sentimenti, e non sarebbe come pensi tu – efficace a deridere-sarebbe solo goffaggine mischiata a quello che penso davvero. Oltretutto in maniera molto controproducente.

Comunque.
Penso che se è vero poi che indietro, tornarci, non è possibile, andare avanti -in qualche modo- guardare, e non fermarsi alle idee, non ha mai avuto nulla da perdere.

Focalizzarsi su quello che c’è dietro a chi ti sta davanti. Io lo faccio spesso.

Ma comunque non fa niente, volevo solo dirti due cose mentre ero in attesa che il thé si scaldi.
Zero convincimenti. Solo pensieri e un pò di stanchezza,

mentre si fredda un pò l’acqua, e io come al solito, ti stavo pensando.

Vado.

The dark side of quello che sento

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La fotografia era quella di lei, poggiata nei suoi vestiti neri a cercare un modo caldo per mentirsi che andava tutto bene. Lo scatto era quello degli occhi miei che avevano alzato il tiro, e poi avevo pensato che tendenzialmente sono più manifeste le motivazioni che ci tengono fermi, che non gli sforzi che danno origine a un gesto.

C’era la luce di una lampadina in una stanza senza finestre, e parole dai silenzi lunghissimi, che qui non si parla mai a caso, avevamo detto. L’odore del thé caldo, il suo primo sorriso dopo il dolore e altre cose per cui varrebbe la pena rinascere anche più di una vita, quelle cose che non guarderesti mai in mezzo alle distrazioni di una città così grande, e poi però eccoli lì gli sguardi che ti sorpassano svelti, inchiodano e tornano indietro. Come a dire: dio santo, tu, da dove sei uscita. Quelli.
E se tutto quello stare fosse stato una canzone, l’avrei chiamata “the dark side of quello che sento”, se fosse stato un sorriso sarebbe stato il suo, dopo aver parlato di cognomi, e citofoni.

E mi ha chiesto chi sono: quello che scrive o quello che si ferma. Il primo bacio, quando forse era troppo tardi, e tutto il resto che non è mai stato troppo tardi. L’inizio delle sue ginocchia, dove la pelle sulle gambe si fa sottile.
Credo in chi tiene da conto quando si sente felice e, ancor più, in chi non lo è ma fa ghirlande di fiori per l’attimo in cui lo sarà. Continuo a credere in quelli che, seduti a un tavolo, passano il tempo e le parole a guardarsi.

E non c’è più momento di dirsi che non è il momento, e non c’è più tempo per raccontarsi che non c’è più tempo.

E allora ti aspetto lì, nella spossatezza delle lettere a margine.
Qualunque sia la parola da scrivere. Che avere cura, a volte, è un altra cosa.

P.S. Sentire, osservare e rincorrere, sono le mie tre parole. Ma potrei cambiarle.

La lontananza.

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Verrà il momento in cui me ne andrò di nuovo. Non significa per forza che me ne andrò lontano, perché è cosi che funziona, non bisogna per forza prendere un aereo per andarsene.
A me basterebbe una sera, un cappotto lungo sulle maniche, e un paio di ricordi che mi danno fastidio. Mi basterebbe stare seduto su un divano e veder passare in tv qualcuno che ti assomigli o che abbia il tuo stesso nome, e pensare a tutto questo silenzio. Sarebbe abbastanza anche solo trovare una fotografia di un vecchio carnevale. Perché è cosi che succede, la lontananza.
La lontananza è pensarti e non avere voglia di farlo, è non scrivere nulla perché non ha un senso preciso.

E se tutto questo significa andarmene, si allora me ne sto andando di nuovo.
Vorrei solo che mi dicessi chiaro e tondo che non lo vuoi prima che io sia troppo lontano da non poter più tornare indietro.
Vorrei che la finissi con questo gioco, che prendessi a calci in culo l’orgoglio.

Se mi prendi le mani magari resto, ma non ho intenzione di stare se resti ferma.
Sto cominciando a camminare, e c’è freddo.